Corruzione al palazzo di giustizia

Introduzione

Un dramma teatrale eccezionale, scritto da Ugo Betti nel 1944 e rappresentato nel 1949, per la prima volta, al Teatro delle Arti in Roma. E’ ritenuto il capolavoro di Ugo Betti (Macerata 1892 – Roma 1953) ed è uno fra i testi più significativi del teatro italiano contemporaneo.

Nella prefazione leggiamo “L’ambizione di potenza, la lotta senza quartiere per la carriera nell’angusto, soffocante ambiente della burocrazia, l’incertezza morale di uomini avvezzi ad amministrare la giustizia senza più credere in essa, la tragedia della giovinezza innocente travolta in quel clima disumano, l’allucinante vicenda del perverso che alla fine, comprende l’estrema vanità del suo successo crudele: questi gli elementi drammatici che si intrecciano e si scontrano con eccezionale potenza in questo altissimo dramma, colmo di tutte le inquietudini d’oggi e insieme simbolo della nostra crisi morale e dell’inevitabile presenza di Dio.

In “Corruzione al palazzo di giustizia”, un titolo inquietante, Betti condensò la grave tematica delle opere precedenti, portandola ad una temperie di eccezionale intensità alimentata, oltre che dalla sua esperienza di artista, dal clima tragico ed allucinato di quegli anni angosciosi. In esso i fatti dolorosi ed abnormi che accadono, lo svolgimento stesso ad inchiesta, con la conseguente ricerca dei colpevoli, superano immediatamente i limiti della cronaca per assumere un evidente significato di denuncia nei riguardi della società e del malcostume contemporaneo.

Storia del dramma in breve

In un immaginario, simbolico paese straniero, un certo Ludvi-pol, avventuriero e politicante, viene trovato cadavere in una stanza del palazzo di Giustizia; poiché le circostanze della sua morte non risultano chiare, e l’opinione pubblica sospetta colpevoli rapporti fra la sua morte ed altri fatti delittuosi avvenuti negli stessi giorni, viene aperta un’inchiesta fra il personale del tribunale e persino tra i giudici.

Dopo un primo sommario interrogatorio, i sospetti dell’inquisitore paiono concentrarsi sulla figura del vecchio presidente Vanan, il quale, da prima respinge con violenza ogni addebito ma, poco dopo, crolla in una crisi d’amarezza e di sconforto.

Grande è lo stupore dei colleghi; solo il giudice Cust, che è il vero colpevole, infierisce sul vecchio nel tentativo di eliminarlo per poterne prendere il posto, ma il suo collega e rivale Croz, che nutre la stessa ambizione, nonostante sappia di essere minato da un male implacabile, controlla attentamente le sue mosse.

Intanto il presidente Vanan, spronato dalla giovane figlia Elena, che crede nell’innocenza del padre, ha faticosamente preparato un memoriale di autodifesa; Elena stessa, dopo qualche giorno porta il plico al palazzo e lo vorrebbe consegnare nelle mani dell’inquisitore, ma Cust, intuendo che nel memoriale ci sono gravi prove contro di lui, glielo sottrae con astuzia, ed opera poi per convincerla della colpevolezza del padre e della generale, inevitabile corruzione degli uomini. Elena per un poco gli resiste ma poi, uscita dall’aula e vinta dallo sconforto, si getta nella tromba dell’ascensore, uccidendosi.

Cust, che si sente padrone della situazione, ha un attimo di debolezza con Croz, il quale, fingendosi morente, gli estorce una mezza confessione e si prepara a smascherarlo pubblicamente quando viene davvero colpito da collasso; allora, per un’estrema beffa ai colleghi e in dispregio di ogni giustizia, morendo si accusa del delitto.

Cust viene quindi nominato presidente ma, ora che ha vinto, si sente stremato, lo tormenta il pensiero della ragazza uccisasi, il rimorso di quell’innocenza distrutta non gli dà tregua, alla fine, prostrato, va a confessare i suoi crimini all’ Alto Revisore.

La tragedia, poiché questa è vera tragedia nel senso classico ed antico del termine, tesa com’è fra un delitto ed un suicidio, desta echi inauditi nelle aule vuote e polverose del palazzo, negli immensi desolati ambulacri, violenta gli astrusi calcoli di uomini avvezzi ai più tortuosi giochi dell’intelligenza, coinvolge le loro azioni e parole in una corsa fatale ed inarrestabile.

Più che i delitti, più che il clima allucinante reso da una successione di scene ora rapide ora dense di ombre e di chiaroscuri allusivi, tragica è qui la condizione umana dei personaggi. Questi esseri vizzi, inariditi sui dolori e sulle ingiustizie degli altri, consunti, come il presidente Vanon, dal quotidiano elusivo dovere di far giustizia fra gli uomini, scettici e beffardi come Croz, sui fondamentali valori etici della vita, pavidi per gli infiniti errori commessi come Bata, e pur tormentati, come Cust, dall’ambizione, scatenati dal desiderio di prevalere sugli altri, essi sono l’impressionante trasposizione drammatica di certi dirigenti, di certi grandi funzionari del nostro tempo, presi nel giro vorticoso della vita meccanizzata, investiti di compiti più grandi di loro, responsabili d’innumerevoli vite: “Si sa che questi uomini sono dei veri ragni, ciò che li regge è appunto una ragnatela di relazioni che essi tessono abilmente “afferma il giudice bata, individuando una condizione essenziale della vita sociale e politica. Ma appena la ragnatela viene infranta, come all’inizio del primo atto, coll’arrivo dell’inquisitore, e tutti si trovano in pericolo, essi reagiscono con una violenza proporzionata soltanto alla paura che hanno. Cercano di salvare il salvabile cioè i loro interessi e la carriera, dimostrando in tal modo che una professione così nobile ed un’esperienza di vita così grande non hanno conferito loro alcuna nobiltà o grandezza e che, nonostante le cariche e le dignità formali, essi sono rimasti sostanzialmente dei miserabili.

Questo tema della virtù, come unica base legittima dell’autorità, costituisce il grave sottofondo del primo atto; nel secondo la luminosa apparizione di Elena inserisce il tema dominante l’intero dramma, l’innocente sacrificata nella trama disumana dell’ambizione colpevole, con la sua morte, fa lievitare nel cuore del peccatore perverso un’inattesa consapevolezza morale. Tutto il terzo atto è potentemente orchestrato sull’inquietudine spirituale di Cust, sul suo rimorso ossessivo, sulla sua disperazione di uomo che, per la prima volta, comprende la assoluta inutilità del suo successo crudele e, al di là di questo, il fallimento della propria esistenza. Invano l’inquisitore gli replicherà: “Lascia che il mondo cammini; essere uomini è questo”; egli, ormai consapevole della Verità, troverà il coraggio di confessare. La dolorosa parabola del fallimento terreno si conclude così con l’inevitabile resa ad una Verità e ad una giustizia oltreumana, la sola legittima per un’umanità divenuta mostruosa a causa della quotidiana corruzione del peccato.